Benvenuti nel mio mondo fatto di fantasia, creatività, libero pensiero, nel rispetto di tutto e di tutti......divido con voi le mie esperienze, le mie sensazioni e i miei pensieri ......piu' profondi!

Non so se riuscirò o mi sarà concesso di chiudere "il cerchio", "disegnandolo sulla grande tela della vita". So di per certo però, che qualunque cosa accadrà nel mio percorso di vita futura, le parole, i pensieri, i racconti e le riflessioni, qui riposti, rimarranno, spero, come spunto e stimolo di riflessione per chiunque li leggerà.

mercoledì 13 maggio 2009

27 - “VAE VICTIS”

1860 - 1870: il brigantaggio lucanoIl "vae victis" - "Guai ai vinti" di Brenna non è soltanto un aneddoto storico, è una costante nella storia dell'umanità. I vinti passeranno alla storia sempre e soltanto attraverso le pagine scritti dai vincitori e dovranno sempre giustificare il perché si siano battuti "per la parte sbagliata".

Questa è una storia capitatomi casualmente tra le mani. Una storia che nessuno conosce. Una storia mai scritta, una storia che parla di un tragico episodio accaduto subito dopo l’unità d’Italia,
un drammatico fatto accaduto a Venosa (PZ) un episodio mai comparso e menzionato in nessun libro di storia, ma che ora voglio raccontare.

Nel 1861 tre fratelli di Venosa si rifiutarono di arruolarsi o di prestare servizio militare, divenuto ormai obbligatorio, tra le fila del neo esercito italiano, per non essere arrestati come disertori si diedero alla macchia, si rifugiarono nei boschi, diventando così “briganti”, aggregandosi alla banda del “famigerato” brigante Crocco, al secolo Carmine Donatelli, originario di Rionero, il quale alla testa di alcune centinaia di uomini, dominava la zona della Basilicata e del Melfese.
Le bande dei briganti, imbracciando armi di ogni sorta, attrezzi agricoli e vecchi fucili, si fecero sempre più numerose e agguerrite e quindi sempre più pericolose.

All’alba del 21 gennaio, festa di S. Agnese, a pochi passi da Venosa, i soldati tennero un’imboscata ad una delle bande del Crocco ed i tre fratelli furono trucidati. Portati in città i loro corpi furono esibiti ed esposti come trofei al centro della piazza, a monito di quanti avevano ancora delle idee di ribellione. A ricordo di questa storia gli (*)Stormy Six nel loro albun del 1972 hanno proposto una canzone: "I tre fratelli di Venosa", appunto.


Il 7 aprile del 1861 i "briganti" escono dai boschi del Vulture e di Lagopesole, si uniscono ai contadini dei latifondi del principe Doria e, adorni delle coccarde rosse della rivolta contadina e di lenzuoli bianchi (vessilli borbonici), ne invadono le terre. Centinaia di donne e di bambini li precedono. Imbracciano armi rudimentali come bastoni e forche, poi arrivano gli uomini, armati di vanghe, attrezzi agricoli e vecchi fucili, si scagliano contro l’esercito piemontese.


Molte volte mi sono chiesto il motivo di tanta ostilità nei confronti del governo piemontese. Perché la gente preferiva fuggire nei boschi e vivere clandestinamente piuttosto che vivere nelle loro case. Voglio proporre una breve analisi della situazione socio-economica e politica di quegli anni, prima e dopo l’unità d’Italia.

Il vecchio regime borbonico era caduto per l'iniziativa garibaldina di tipo rivoluzionario che aveva alimentato nelle masse meridionali concrete speranze di un radicale rinnovamento della società locale, ma il nuovo governo che nel 1861 prese le redini del potere era l'espressione della borghesia, quella Destra storica che affrontò la questione meridionale con un patto di alleanza fra i ricchi possidenti del Nord e i proprietari terrieri del Sud, eludendo la promessa della tanto agognata riforma agraria che doveva destinare la terra ai contadini.

Brigante, si dice bonariamente di un individuo dall'elasticità morale comprovata che non esita per il proprio tornaconto a ricorrere a furberie di ogni genere pur di condurre l'acqua al suo mulino. Il termine, attualmente usato soprattutto per stigmatizzare la condotta riprovevole di una persona in campo sentimentale, nel secolo scorso indicava l'appartenenza a una delle numerose bande che, in un arco temporale ristretto, dal 1860 al 1865, imperversarono nel Sud dell'Italia dando vita a quel fenomeno dalle implicazioni sociali e politiche classificato dagli storici sotto l'etichetta di "Brigantaggio meridionale".

Ma chi erano i briganti?
Gruppi di malfattori riuniti in una zona delimitata e disciplinati sotto l'autorità di un capo che attentavano con le armi in pugno alle persone e alle proprietà. Razziatori, ladri, delinquenti o, come si direbbe oggi, tutti coloro che agendo al di fuori della legalità appartengono alla cosiddetta malavita organizzata. Ma anche se i metodi e le "imprese" non differivano da quelli della delinquenza comune, la connessione finiva lì. Il brigantaggio, infatti, a cominciare dalla sua durata che si manifestava per poi estinguersi in un periodo di tempo definito, si è sempre discostato, almeno per le cause da cui trae origine, dal banditismo fine a se stesso ed è sempre stato l'espressione di un profondo disagio socio-economico.

I briganti, ovviamente, godevano dell'incondizionata simpatia delle masse rurali che li identificavano alla stregua di veri e propri eroi, una specie di ottocenteschi Robin Hood paladini di una Dea Giustizia che brandiva la spada contro i soprusi dei ricchi e il pericolo costituito dalle autoritarie imposizioni del nuovo padrone, il Regno d'Italia.

Forti degli appoggi tangibili forniti dalla corrente reazionaria borbonica e a volte addirittura da quegli stessi proprietari terrieri che essi depredavano, ma che avevano accolto con sospetto l'arrivo della dominazione sabauda, i fuorilegge potevano contare anche sull'aiuto della Chiesa
In virtù di quella ufficiosa connivenza i briganti potevano trovare riparo nei conventi e sfuggire alla cattura nel caso in cui la loro sortita contro le truppe regolari si fosse risolta in un frettoloso ripiegamento.

La situazione politico-economica delle Due Sicilie

Gli eventi del 1860-61 (dopo un susseguirsi di occupazioni violente: dai barbari ai normanni, agli svevi, agli angioini e agli aragonesi) vennero accolti dalla popolazione come un ennesimo episodio di sopraffazione e di assoggettamento: il governo piemontese appariva, in definitiva, un altro usurpatore. Quando vennero chiamati a votare per il plebiscito di annessione al Piemonte, molti credettero veramente di andare verso la libertà.Ma poi l'egoismo e l'arroganza dei padroni (subito passati dall'altra parte per "tenere tutto") legittimarono non solo la nuova amministrazione statale, ma si arricchirono ancora di più quando ci furono le vendite dei beni della Chiesa e del Demanio.
Le strutture politiche ed amministrative del Regno erano ormai decrepite; l'economia delle zone interne ferma; le strade poche ed inadeguate; le libertà personali e politiche erano inesistenti e la polizia potentissima e vessatoria; la situazione sociale era precaria per la povertà dei contadini e l'arretratezza del sistema agrario. Le riforme agrarie promosse dai Borbone erano state boicottate e, negli effetti, ridimensionate da una potentissima aristocrazia terriera, rapace ed inefficiente, attaccatissima ai propri privilegi, tanto da passare immediatamente dalla parte dei nuovi padroni, i Savoia, pur di conservarli. Tutto ciò era aggravato dalle scarse qualità politiche degli uomini che circondavano il Re.

La situazione politico-economica del governo sabaudo

Nel 1860, alla caduta del regime borbonico sconfitto dall'esercito dei volontari garibaldini, il Meridione veniva annesso di fatto agli altri Stati già sotto il dominio di Casa Savoia e si presentò all'appuntamento unitario in condizioni di profonda arretratezza e di grande squilibrio sociale. Nella vasta zona dello Stato pre-unitario popolata da oltre 7.000.000 di abitanti, quasi un terzo della popolazione globale italiana dell'epoca, la distribuzione della ricchezza che traeva la sua unica fonte dalla produzione agricola era iniquamente spartita fra un ristrettissimo numero di latifondisti mentre la massa di braccianti agricoli era ridotta alla fame. Le premesse per una rivolta popolare erano già nell'aria fomentate dalla propaganda borbonica che incitava le masse dei diseredati a considerare i conquistatori piemontesi come il nuovo nemico da combattere e nell'autunno del 1860 una violenta guerriglia sfociò in tutta la parte continentale dell'ex Regno delle due Sicilie, con una diffusione massiccia nell'area compresa tra l'Irpinia, la Basilicata, il Casertano e la Puglia. Capitanati da ex braccianti, disertori, ex soldati borbonici e garibaldini, decine di migliaia di ribelli si diedero alla macchia rifugiandosi nelle zone montuose più impervie e inaccessibili per dare inizio a una guerriglia condotta su un duplice fronte, quello delle incursioni per razziare e depredare i ricchi proprietari terrieri, e quello sul piano squisitamente militare contro l'esercito piemontese.
La realtà apparve ben presto in tutte le sue sfaccettature negative per il popolino: le strutture economiche e sociali rimasero immutate mentre faceva capolino un nuovo nemico agli occhi delle masse di diseredati. Lo Stato forte dell'Italia unificata imponeva una rigida centralità amministrativa introducendo pesanti balzelli che andavano a gravare sul capo dei più deboli, l'insopportabile ingerenza dei prefetti di polizia e la norma della ferma militare obbligatoria, particolarmente invisa alle popolazioni povere del Sud. A tutto ciò andava aggiunta l'incapacità da parte della Destra conservatrice di affrontare la questione del Mezzogiorno focalizzando come esigenza primaria la questione sociale che fu invece la vera molla scatenante dell'esplosione di quel gravissimo fenomeno di rivolta popolare noto come brigantaggio meridionale.

Il fenomeno del brigantaggio


Si calcola che le bande di briganti siano state oltre 350 e che schierarono in campo decine di migliaia di ribelli "prelevati" con la persuasione o con la forza dall'immenso serbatoio delle masse contadine. Le "formazioni" erano comandate da capi dal nome leggendario come Crocco, La Gala, Pasquale Romano, Caruso, Luigi Alonzi, Gaetano Manzo, Tranchella.
Crocco, al secolo Carmine Donatelli, era originario di Rionero e dominava la zona della Basilicata e del Melfese. Si diede alla macchia nei boschi del Vulture seguito da un manipolo di compagni di sventura e divenne un temuto fuorilegge. Le sue file ben presto si ingrossarono e Crocco si mise a disposizione dei reazionari borbonici da cui ricevette assistenza e sovvenzioni. La sua banda nutrita e compatta impegnò in durissimi scontri le truppe regolari piemontesi.
Fin dai primi mesi del 1860, il fenomeno del brigantaggio assunse dimensioni dilaganti e costrinse i piemontesi a portare il numero dei soldati nel Sud. La lotta armata fra briganti meridionali e truppe dell'esercito regolare in cinque anni fece un'ecatombe di vittime assumendo le proporzioni di una guerra civile.
Occorsero misure severissime di pubblica sicurezza per stroncare definitivamente il brigantaggio e fu determinante al riguardo la "Legge Pica" del 15 agosto 1863, che sottopose alla giurisdizione militare le zone di maggiore attività dei banditi. Venne proclamato lo stato d'assedio, con rastrellamenti di renitenti alla leva, di sospetti, di evasi e pregiudicati. Le rappresaglie furono atroci e sanguinose da entrambe le parti e spesso le masse furono coinvolte loro malgrado negli scontri pagando con la distruzione di interi villaggi e le fucilazioni senza processo di centinaia di contadini ritenuti a torto fiancheggiatori dei briganti.
I briganti in realtà chi sono?
Gli stessi storici sono stati costretti ad ammettere che la tanto vituperata "ferocia sanguinaria" dei cosiddetti briganti è dovuta alle piccole bande di malfattori, che vivono come parassite ai margini delle grandi bande legittimiste. Formate per lo più da delinquenti comuni, approfittano del caos di quei tempi burrascosi per meglio perpetrare i loro delitti, ammantandoli di una falsa coloritura politica.Le razzie, i saccheggi, le uccisioni e i sequestri compiuti anche dalle bande legittimiste rispondono quasi sempre alle tragiche necessità della guerriglia e dell'autofinanziamento. Il segreto del successo per cui i ribelli tengono per così lungo tempo in scacco notevoli forze avversarie sta nella perfetta conoscenza del terreno, nella loro straordinaria mobilità, nella copertura, che spesso rasenta la complicità, delle popolazioni. Non solo le montagne e i boschi della Lucania, luoghi naturalmente elettivi per ogni forma di guerriglia, sono teatro delle loro gesta. Anche in campo aperto, come le vasti distese della Puglia, i legittimisti dimostrano un buona padronanza della tattica militare, tanto da impegnare in combattimenti frontali interi reparti della cavalleria sabauda.

I briganti, quindi, non furono "criminali comuni", come pensò la maggioranza degli italiani, ma un esercito di ribelli che, all'infuori della violenza privata, non conoscevano altra forma di lotta. Tenuti per secoli nell'ignoranza e nella miseria, i contadini meridionali non avevano ancora maturato una conoscenza politica dei loro diritti e non riuscivano ad immaginare alcuna prospettiva di cambiamento attraverso i mezzi legali. Questa sfiducia in ogni forma di protesta e di lotta organizzata fu il nucleo della vera "Questione meridionale". L'esteso fenomeno del brigantaggio ne fu solo una drammatica conseguenza.
Lo Stato italiano rispose con una vera e propria guerra a questa rivolta sociale che, nelle sue manifestazioni ampie, durò oltre quattro anni: alle truppe già stanziate nel Sud al comando del generale Cialdini, il governo ne aggiunse altre, cosicché, nel 1863 ben 120.000 soldati erano impegnati nella lotta al brigantaggio: quasi la metà dell'esercito italiano (il che significa che non erano quattro balordi ma un popolo!)
Nello stesso anno venne dichiarata la legge marziale: processi sommari fucilazioni, incendi e saccheggi furono gli strumenti impiegati da Cialdini nell'opera di repressione, non solo contro i briganti, ma contro tutti i loro fiancheggiatori. Migliaia di morti in scontri armati e altrettante pene capitali o alla prigione a vita furono il tragico bilancio finale. Nel 1865 il brigantaggio era stato praticamente sconfitto. Lo stato aveva vinto la sua guerra, ma compiendo proprio gli errori che Cavour aveva cercato di scongiurare. Dopo la repressione e la legge marziale, la frattura tra il Sud ed il resto dell'Italia non fece che approfondirsi.Le classi povere, soprattutto contadine, immaginarono spesso i briganti come degli eroi popolari e anche nella stampa dell'epoca furono proposte figure di briganti "buoni".

Reclutamento nel regno borbonico

L'Esercito Borbonico si alimentava normalmente con la leva. Inoltre arruolava volontari provenienti sia dalla vita civile che fra i soldati a fine ferma.Era previsto che i coscritti prestassero cinque anni di servizio attivo e poi cinque anni nella riserva, alle proprie case, con l'obbligo di ripresentarsi alle armi in caso di bisogno. Il coscritto poteva scegliere di prestare servizio attivo di otto anni, senza passare poi nella riserva. Era il Re a fissare il numero dei coscritti da chiamare alle armi ogni anno. Questo numero era proporzionalmente ripartito tra tutti i comuni del Regno, ad eccezione di quelli siciliani che erano esenti dalla leva. Erano di volta in volta assoggettati alla leva i giovani che in quell'anno erano compresi tra i 18 e i 25 anni. Ogni comune estraeva a sorte il numero di nomi previsto per quell'anno, inviando, poi, nel capoluogo di provincia i giovani prescelti che, superate le visite mediche del consiglio di leva, dovevano raggiungere la compagnia deposito del corpo a cui erano stati assegnati, dove venivano addestrati per circa sei mesi. Le reclute dovevano risultare di sana e robusta costituzione ed essere alte almeno cinque piedi (circa m. 1,62). Il giovane estratto poteva essere sostituito da un fratello o da un parente con le stesse qualità fisiche; poteva anche effettuare lo scambio con un altro giovane della stessa leva, però l'anno successivo sarebbe stato sottoposto nuovamente al sorteggio se entro i limiti di età. Infine era prevista l'esenzione mediante un cambio, da prendersi a pagamento tra i soldati in congedo o tra i giovani esenti dall'obbligo di leva. La cifra era, però, alla portata di pochi: 240 ducati, cioè circa sei milioni di lire nel 1995, da consegnare al sostituto. In ogni caso le popolazioni delle Due Sicilie si erano gradualmente abituate alla coscrizione, tanto che nel 1860 i renitenti alla leva erano un numero irrilevante.Esisteva anche l'arruolamento volontario con una ferma di otto anni per i sudditi delle Due Sicilie e di quattro per gli stranieri. I volontari usufruivano di un premio di ingaggio e, insieme ai coscritti, avevano la possibilità si raffermarsi per altri otto anni o, in alternativa, per quattro o per due.


I tre fratelli di Venosa
Faceva molto caldo in Lucania
nel Luglio ottocentosessantuno
e la gente si sentiva già tradita
da un'Italia non voluta e non capita
Quel fucile alzato al cielo e mai usato
non è pronto per Vittorio Emanuele
tre fratelli contadini di Venosa
si rifiutano di metter la divisa.
Con le foglie dell'autunno sulla strada
è difficile seguire i loro passi
già si è sparsa qua e là la loro fama
coi briganti hann firmato un proclama:
"Contadini rimasti sulla terra
non avrete proprio nulla da temere,
su nei boschi siamo tanti e bene armati
e i soprusi saranno vendicati"
Con il freddo dell'inverno nelle ossa
e la voglia del fuoco di un camino
i fratelli contadini sono stanchi
e camminano nel chiaro del mattino
Il ventuno di gennaio S.Agnese
i soldati hanno teso un'imboscata
li hanno uccisi a un chilometro da casa
li hann portati sulla piazza di Venosa




(*)Gli Stormy Six sono stati un gruppo musicale italiano, costituitosi a Milano nel 1966 e scioltosi nel 1983. Nel 1972 con una repentina virata nel mare delle tendenze musicali dell'epoca, viene approntato L'unità, concept album che rilegge in chiave storico-critica l'unità d'Italia e "I tre fratelli di Venosa" ne è uno dei brani dell'album.

Nessun commento:

Posta un commento

Commenta: